Tratto dal romanzo di Don DeLillo, Cosmopolis racconta l’odissea vissuta da Eric Packer, ventottenne multimilionario, che per recarsi dal proprio barbiere di fiducia si trova dover attraversare Manhattan a bordo della sua lussuosa e ultraccessoriata limousine mentre attorno a lui il mondo pare esplodere in un vortice di violenza, follia, tensioni sociali ed economiche.

Dopo Burroughs e Il Pasto Nudo, DeLillo e Cosmopolis. A David Cronenberg piacciono le sfida cine-letterarie ad alto coefficente di difficoltà. Stavolta, un po’ come la precedente a ben vedere, il tuffo carpiato riesce a metà. Il romanzo da cui è stato tratto il film, incredibilmente acuto nel preconizzare più di dieci anni fa, quando venne pubblicato, come sarebbe finito il mondo al giorno d’oggi, si basa su riflessioni e dialoghi che in questa versione vengono proposti utilizzando piani temporali diversi e un rigido impianto teatrale. L’interno della limousine, fatte salve alcune eccezioni, diventa il palcoscenico utilizzato dal protagonista e dalle varie comparse per confrontarsi e descrivere lo stato dell’arte dell’ economia, della vita, della morte, del sesso e dell’amore.

Se il romanzo precorreva i tempi, la versione cinematografica di Cosmopolis non fa altro che mettere in scena quanto accade sul Pianeta Terra ogni giorno da qualche anno a questa parte: le speculazioni finanziarie che spostano gli equilibri della società (in questo senso Compolis riesce ad essere molto più corrosivo di Wall Street 2), l’interconnessione totale tra persone always on, la violenza, individuale e collettiva, sempre pronta ad esplodere con ferocia che celebra la decadenza dell’impero occidentale, la velocità con la quale la tecnologia, complessa e pervasiva, si evolve e modifica la vita di tutti noi. Insomma, Cronenberg col suo script adattato dall’originale, non dice nulla che non si sappia già. Dato il contenuto, la forma risulta quindi essenziale, raggelante, un continuo lavoro di sottrazione che celebra la parola ed il dialogo. E questo, paradossalmente, diventa il peggior difetto dell’opera.

Purtroppo infatti, proprio data la sua natura, la visione del film in italiano è, in una parola, inutile.

Se esiste un film che corrobora la nostra opinione sulla necessità che i film debbano essere fruiti in lingua originale, questo è proprio Cosmopolis: vuoi per la quantità di dialoghi presente, vuoi per l’impossibilità di cogliere i giochi di parole del testo originale (proust-ata), vuoi per l’eterogeneità del cast scelto dal regista candese che annovera attori americani, francesi, inglesi, ognuno con un proprio stile e approccio artistico/linguistico che nella versione doppiata si perde o viene azzerato (epifanico in questo senso il cameo di Almaric).

E Pattison? “Edward” regge il film, è in ogni inquadratura ed in generale se la cava bene, è oramai palese la sua volontà di seguire le orme di Leo di Caprio che, dopo un grande successo commerciale, si è affidato nel corso del tempo a registi di spessore per affinare le proprie qualità. Indubbiamente quanto a talento c’è ancora una bella differenza da colmare ma per il vampirello c’è la concreta speranza di far dimenticare nell’arco di pochi anni quell’ infame quadrilogia.



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Andrea Chirichelli

Classe '73. Giornalista da tre anni, ha offerto il suo talento a riviste quali Wired, Metro, Capital, Traveller, Jack, Colonne Sonore, Game Republic e a decine di siti che ovviamente lo hanno evitato con anguillesca agilità. Ha in forte antipatia i fancazzisti, i politici, i medici, i giornalisti e soprattutto quelli che gli chiedono foto.

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3 Comments

  1. “Laddove però il romanzo precorreva i tempi, Cosmopolis by Carpenter” un piccolo lapsus :)

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